Vitamina D, buona anche per il colesterolo?



Già in passato alcuni studi osservazionali avevano ipotizzato che la vitamina D potesse proteggere nei confronti delle malattie cardiovascolari. Ma che la vitamina D fosse anche in grado di ridurre i livelli di ‘Low Density Lipoproteins’ (LDL) – in gergo ‘il colesterolo cattivo’- questa è senz’altro una novità.

A dimostrarlo è stato un nutrito gruppo di ricercatori statunitensi, che dal 1993 al 1998 hanno trattato, per 3 anni, 576 donne in postmenopausa.

Lo studio si era svolto nell’ambito della Women’s Health Initiative, un programma di ricerca che per 15 anni si è proposto di individuare le più comuni cause di morte, disabilità e scarsa qualità di vita nelle donne in post-menopausa, con particolare riferimento a malattie cardiovascolari, cancro e osteoporosi.

Le pazienti reclutate sono state randomizzate, in doppio cieco, in due bracci di studio: 400 unità giornaliere di  vitamina D combinata con 1000 mg di calcio (CaD) oppure placebo.

I risultati di questo studio clinico, da poco pubblicati sulla rivista americana Menopause, sono il frutto di una più recente analisi post-hoc, la quale dimostra che le pazienti trattate raggiungevano, già dopo 2 anni, livelli sierici di vitamina D (25OHD3) statisticamente più elevati rispetto alle pazienti sottoposte a placebo (24,3 ng/ml vs 18,2 ng/ml; p<0,001). L’aumento medio osservato era del 38%.

Nei pazienti randomizzati a CaD si era inoltre osservata una significativa, seppur debole, riduzione delle LDL rispetto al baseline (4,46 mg/dl; p=0,03). Inoltre, alte concentrazioni di vitamina D erano associate a livelli più elevati di HDL (p=0,003) e a livelli ridotti di LDL e trigliceridi (p=0,02 e p=0,001 rispettivamente).

“Questi risultati supportano l’ipotesi secondo cui alte concentrazioni di 25OHD3,in risposta all’integrazione con CaD, sono associate ad un miglioramento delle LDL”, spiegano i ricercatori.

Ma i ricercatori non si sono accontentati di analizzare unicamente il profilo lipidico; hanno infatti incluso nell’analisi multivariata anche altre variabili, fra cui i valori iniziali di vitamina D, il fumo, il consumo di alcolici, la stagione in cui la paziente veniva valutata.

Considerato il campione relativamente piccolo coinvolto nello studio, gli autori non si sono sbilanciati nel trarre conclusioni circa il possibile effetto della vitamina D sulla prevenzione del rischio cardiovascolare. Molte delle variabili considerate – indice di massa corporea, attività fisica all’area aperta, alimentazione ecc. – non erano infatti valutabili in maniera oggettiva, e potevano rivelarsi dei fattori confondenti.

Un altro fattore confondente da non sottovalutare potrebbe essere rappresentato dall’aderenza al trattamento. Le donne in cui era stato osservato un aumento maggiore della 25OHD3 potevano essere più aderenti alla terapia somministrata, nonché alla terapia ormonale sostitutiva concomitante. Infatti la terapia ormonale è nota per ridurre le LDL ed aumentare le HDL.

Inoltre le donne maggiormente aderenti al trattamento potevano, per loro natura, essere anche più predisposte ad adottare uno stile di vita corretto (attività fisica adeguata, sana alimentazione, perdita di peso ecc.) durante il follow up, e questo potrebbe aver contribuito ad aumentare i livelli di 25OHD3 in misura ancor più significativa.

In un’intervista rilasciata al nostro giornale, il Dott. Maurizio Mazzantini, dirigente medico presso la U.O. di Reumatologia (AOU Pisana), esperto di osteoporosi e malattie del metabolismo minerale osseo, spiega che un altro fattore confondente, non contemplato nel presente studio, è rappresentato dal consumo di latticini.

“I pazienti sottoposti a integrazioni di calcio sono spesso portati ad assumere minori quantitativi di latte e formaggi”, afferma il reumatologo, sottolineando che “questa attitudine si traduce talvolta in un miglioramento del profilo lipidico del paziente”.

D’altro canto “il disegno prospettico, randomizzato in doppio cieco, controllato verso placebo e aggiustato su covariate quali l’età e l’indice di massa corporeo e la stagionalità rappresentano un punto di forza per questo studio”, precisano gli autori del paper.

“Non abbiamo abbastanza dati per affermare di aver compreso tutto”, ha riferito il Dr. Peter F. Schnatz, professore di medicina interna al Jefferson Medical College di Philadelphia e primo autore. La variazione delle LDL, ha spiegato, “è significativa e va nella direzione giusta, ma non è sufficiente per affermare che la vitamina D possa essere impiegata nella prevenzione di malattie cardiovascolari”.

Anche il Dott. Mazzantini concorda con questa affermazione e precisa che la vitamina D “non può essere impiegata come coadiuvante nella correzione del profilo lipidico o, più in generale, nella prevenzione primaria o secondaria delle malattie cardiovascolari”.

Questa nuova analisi dei dati raccolti nell’ambito della Women’s Health Initiative potrebbe rappresentare il presupposto per la conduzione di nuovi e più ampi studi prospettici, volti ad approfondire il ruolo della vitamina D nella prevenzione del rischio cardiovascolare. Ad oggi queste evidenze non dovrebbero in alcun modo influenzare la pratica clinica e le scelte terapeutiche.

Nonostante ciò “è sufficientemente provato che l’ottenere livelli plasmatici ottimali di vitamina D [ovvero compresi tra 30 e 100 ng/ml di 25OHD3] rappresenta un reale vantaggio per la salute nel suo complesso”, tiene a precisare il Dott. Mazzantini, a conclusione della nostra intervista.

Francesca Sernissi

Riferimento

Schnatz PF, et al. Calcium/vitamin D supplementation, serum 25-hydroxyvitamin D concentrations, and cholesterol profiles in the Women’s Health Initiative calcium/vitamin D randomized trial. Menopause. 2014 Mar 3.