Pubblicato lunedì 28 ottobre 2019
Che la vitamina D sia importante per la salute è nota da qualche centinaio di anni. Lo stesso concetto sembra valere quindi per i pazienti con sclerosi multipla (SM). Il punto centrale è il fabbisogno della supplementazione. Due importanti studiosi ne hanno discusso a Stoccolma, in una sessione dell’ECTRIMS 2019.
Al quesito se «i pazienti con SM debbano essere avvisati di assumere vitamina» Alberto Ascherio, ricercatore e professore presso la Harvard TH Chan School of Public Health di Boston, risponde senza mezzi termini affermativamente. Più sfumata la posizione di Ellen Mowry, ricercatrice e docente di neurologia alla Johns Hopkins University di Baltimora, che si dice d’accordo con Ascherio ma aggiunge «a dosi moderate».
Due studi fondamentali in favore della supplementazione
Nella sua presentazione, Ascherio ha messo in evidenza due studi fondamentali in cui i ricercatori hanno dimostrato che esiste un legame inverso tra vitamina D e rischio di SM.
I dati aggregati tratti da due grandi studi, il Nurses’ Health Study (NHS) e il Nurses’ Health Study II (che avevano coinvolto più di 187.000 donne) hanno portato all’unico studio prospettico che ha esaminato il legame tra l’assunzione di vitamina D e il rischio di SM.
I risultati hanno mostrato che le donne con il più grande apporto complessivo di vitamina D (circa 700 UI/ die, sia dalla dieta che dagli integratori) avevano circa il 33% in meno di probabilità di sviluppare SM rispetto a quelle con un apporto più basso (circa 60 UI/die).
Ascherio ha mostrato che, a differenza della vitamina D proveniente dalla dieta (che non aveva alcuna associazione significativa), le donne che assumevano integratori di vitamina D (400 UI/die o più) avevano un rischio ridotto del 41% di sviluppare SM rispetto alle non utilizzatrici. In un altro studio chiave (Munger KL, et al. JAMA, 2006), i ricercatori hanno fatto misure ripetute nel tempo dei livelli sierici di vitamina D in oltre 7 milioni di uomini e donne delle forze armate statunitensi.
Ancora una volta, gli individui con livelli più alti di vitamina D – misurati come 25(OH)D o 25-idrossivitamina D) erano meno inclini a sviluppare SM negli anni successivi, anche dopo aver controllato i dati per età, genere ed etnia. Questi risultati sono stati confermati anche in ampi studi condotti in Svezia e Finlandia, ha osservato Ascherio. «Questi dati hanno portato a chiedersi che cosa succeda nelle persone che hanno già la SM» ha detto il ricercatore.
Trial randomizzati e controllati (RCT) per affrontare questa domanda affrontano «numerosi ostacoli» che hanno portato a limitazioni e incertezze, ha affermato Ascherio. «Questo perché le persone con SM, a causa dei loro sintomi, possono cambiare il loro comportamento. Gli individui con malattie più gravi hanno meno probabilità di andare in spiaggia o esporsi alla luce UV oppure possono cambiare la loro dieta e, in particolare, possono assumere integratori di vitamina D». Inoltre, i pazienti con SM possono modificare il trattamento, fatto che potrebbe far scomparire i sintomi principali o associarsi a effetti collaterali.
Ulteriori dati a supporto dei vantaggi dell’integrazione
Ascherio è stato coinvolto in uno studio osservazionale, che considera uno dei migliori elementi di prova disponibili a favore dell’uso di integratori di vitamina D. «Abbiamo avuto l’opportunità unica di esaminare i livelli di vitamina D molto presto nel corso della malattia, al momento dei primi sintomi di demielinizzazione» ha affermato.
Nello studio, le concentrazioni sieriche di 25(OH)D (ciò che è tipicamente misurato in un esame del sangue) sono state valutate nei primi due anni nelle persone che hanno avuto il loro primo attacco neurologico o sindrome clinicamente isolata (CIS). I ricercatori hanno quindi esaminato ciò che è accaduto nel decorso della malattia a lungo termine a intervalli di tre, cinque e 11 anni.
I primi risultati, pubblicati nel 2014 , hanno mostrato che entro il primo anno di CIS, le persone con alti livelli di vitamina D «avevano un rischio notevolmente più basso di nuove lesioni attive, inferiore aumento dell’EDSS [livello di disabilità] e minore perdita di volume del cervello» ha riportato Ascherio, suggerendo che anche i livelli di vitamina D sono «importanti nelle persone con SM».
A suo avviso, un aumento dei livelli sierici di vitamina D da meno di 50 nmol/L a 100 nmol/L (o superiore) offre un beneficio clinicamente significativo. Ma come può una sperimentazione clinica testare correttamente questa ipotesi?
Un piccolo studio randomizzato, in doppio cieco, controllato con placebo, condotto in Finlandia, in cui i pazienti hanno ricevuto 20.000 UI/settimana (circa 3.000 UI/die) di vitamina D3 orale come trattamento aggiuntivo all’interferone beta-1b (la loro concentrazione mediana di vitamina D era di 50 nmol/L) ha mostrato una riduzione significativa del numero di lesioni cerebrali attive e trend a favore del gruppo vitamina D.
Le associazioni statisticamente significative erano però difficili da ottenere, ha fatto notare Ascherio, perché lo studio era troppo «sottodimensionato», dati i pochi pazienti arruolati (circa 65). Tuttavia, a suo parere, vi era «un chiaro vantaggio in termini di entità dell’effetto» coerente con studi precedenti. Da notare che 3.000 UI di vitamina D3 orale al giorno è «ciò che raccomando formalmente quando mi viene chiesto quanta vitamina D dovrebbero assumere le persone con SM» ha specificato Ascherio, in quanto con quella quantità, i livelli sierici vanno da 50 nmol/L a un minimo di 100.
Nessuno degli studi recenti o in corso si rivolge alla domanda chiave, secondo Ascherio, ovvero «che cosa dovremmo fare con i nostri pazienti quando la metà di loro ha livelli sierici di vitamina D inferiori a 50 nmol/L. Quindi, siamo lasciati in una situazione in cui è necessario prendere una decisione basata su prove incomplete, basate sul nostro miglior giudizio».
Per quanto riguarda la sicurezza, alti livelli di integratori di vitamina D possono essere tossici ma, secondo il ricercatore, una dose di 3.000 UI al giorno «è completamente sicura, non ci sono prove di effetti collaterali significativi e la probabilità di dare un beneficio può attestarsi all’80%» anche se non si conosce il livello di vitamina D del paziente.
La versione di Mowry
All’ECTRIMS, Ellen Mowry ha esposto i pro e i contro dell’uso di routine dei supplementi di vitamina D nella pratica clinica e ha spiegato perché lei consiglia ai pazienti di assumere basse dosi di integratori. La neurologa si è dapprima concentrata sull’associazione tra rischio di SM, vitamina D ed esposizione alla luce UV.
Mowry ha enfatizzato i dati di uno studio australiano del 2011 che mostra che «sono proprio le misure di luce UV, indicatrici di esposizione al sole, che sembrano essere più rilevanti per il rischio di SM, con un’associazione molto più forte tra dosi cumulative più elevate di luce UV e probabilità più basse di SM successiva, rispetto alle stime dell’effetto per i livelli di vitamina D».
Un altro fattore importante da tenere in considerazione è l’etnia, poiché i livelli di vitamina D «potrebbero non avere lo stesso significato tra etnie diverse» ha detto Mowry. In uno studio del 2018, i ricercatori hanno scoperto che i livelli di vitamina D nei caucasici erano associati al rischio di SM – con livelli di vitamina D più alti associati a minori probabilità di SM – ma tale associazione non era vera negli ispanici o nelle persone di colore.
Al contrario, «in tutti e tre i gruppi, l’esposizione al sole era legata al rischio di SM, essendo le maggiori quantità di esposizione ai raggi UV nel passato associate a una più bassa probabilità di SM» ha detto Mowry. La specialista ha suggerito che ciò potrebbe essere giustificato da un metabolismo differente della vitamina D, visto che i risultati genetici suggeriscono che le persone di colore «potrebbero essere utilizzatrici più efficienti di vitamina D, per le quali quindi forse i livelli della stessa non sono così rilevanti».
Dalla metà degli anni 2000 «l’integrazione di vitamina D è diventata di tendenza nella SM» ha ricordato la neurologa, e molti «hanno iniziato a estrapolare i dati alla clinica per la SM, offrendo regolarmente ai pazienti vari gradi di vitamina D».
La stessa Mowry ha condotto uno studio, chiamato EPIC , in cui un gruppo di pazienti con SM recidivante è stato seguito per cinque anni al fine di determinare se lo stato della vitamina D fosse associato a lesioni infiammatorie nelle scansioni RM del cervello.
All’inizio dello studio (2004-2005), pochissimi pazienti con SM hanno riferito di assumere integratori di vitamina D, mentre cinque anni dopo «c’era una probabilità 8,5 volte maggiore di persone che riportavano un’integrazione di vitamina D». Per Mowry, ciò suggerisce che clinici e pazienti «avevano davvero preso sul serio questi studi sul rischio e li aveva interpretati a proprio vantaggio».
Effetti su recidive, infiammazione, volume cerebrale e disabilità
Mowry e un altro gruppo di ricerca in Australia hanno pubblicato studi che suggeriscono che livelli più alti di vitamina D sono associati a un minor rischio di ricaduta sia nei bambini che negli adulti, e soprattutto che «questa associazione era lineare». Inoltre, un follow-up di cinque anni dello studio EPIC ha mostrato un’associazione inversa tra i livelli di vitamina D e gli esiti infiammatori della RM, con livelli più alti allineati con «una riduzione di circa il 15% nel rischio di nuove lesioni T2 e circa un terzo di riduzione del rischio di lesioni che accumulano il gadolinio».
Un piccolo studio pilota che ha testato gli effetti immunologici di dosi basse e alte di integratori di vitamina D ha anche mostrato che l’integrazione era associata a cambiamenti favorevoli nel pattern delle cellule immunitarie, con una riduzione delle cellule T che producono IL-17 e delle cellule T della memoria, coinvolte nell’infiammazione.
Per quanto riguarda gli altri risultati clinici, «rilevante anche per la popolazione di pazienti con SM è la disabilità a lungo termine ed è noto che i cambiamenti di volume del cervello – in particolare della materia grigia – possono essere prognostici per i successivi cambiamenti clinici per un lungo periodo di tempo» ha affermato Mowry. Nello studio STAyCIS, che ha valutato l’effetto dell’atorvastatina (farmaco ipocolesterolemizzante) in un piccolo gruppo di individui con CIS, livelli più alti di vitamina D «sono stati associati a una significativa conservazione del volume normalizzato della materia grigia» ha aggiunto.
In modelli animali, l’integrazione di vitamina D era anche associata a una minore perdita di fibre nervose. Al contrario, l’evidenza di un recente studio preclinico suggerisce che esiste un «punto debole» per le dosi di vitamina D, poiché un’alta dose aggrava l’autoimmunità del sistema nervoso centrale.
Gli animali da sperimentazione che hanno ricevuto una dose standard di vitamina D avevano punteggi clinici di malattia più bassi, ma quelli che avevano ricevuto dosi molto elevate (associate a livelli di calcio in eccesso) avevano effettivamente risultati clinici peggiori. «Nel nostro studio EPIC, inoltre, non abbiamo trovato che i livelli di vitamina D fossero associati a variazioni del volume del cervello nel corso dello studio di 5 anni, quindi forse ciò che abbiamo visto nel gruppo CIS ha avuto implicazioni diverse» ha specificato Mowry.
Risultati simili sono stati osservati in pazienti arruolati nello studio SPRINT-MS, che ha valutato l’efficacia di ibudilast nel trattamento della SM progressiva; i dati hanno mostrato che «i livelli di vitamina D non sembravano essere associati a disabilità significative e risultati clinici di imaging».
Dosi più basse secondo la neurologa
Gli studi completati che hanno testato la vitamina D3 come terapia aggiuntiva all’interferone beta-1a – come gli studi SOLAR e CHOLINE – non hanno raggiunto i loro obiettivi primari. «Ci sono alcuni trial in corso, ma dobbiamo ancora attendere i loro risultati» ha detto Mowry. Nel frattempo «siamo ancora lasciati con una domanda senza risposta, ma come clinici siamo ancora costretti a prendere una decisione quando stiamo parlando con un paziente di nuova diagnosi sulla necessità o meno di sostenere la supplementazione di vitamina D, e anche quale dose prendere e con quale frequenza».
In attesa di ulteriori prove, ha detto Mowry, tendo a «fare una modesta integrazione di persone con bassi livelli di vitamina D e invece di dare un consiglio generico su una determinata dose per un individuo, di solito mi rivolgo a un target di livelli di vitamina D, in genere tra 40 e 60 ng/mL». Secondo Mowry, 40-60 ng/mL sono i livelli più supportati dai dati osservativi. «Per i miei pazienti, ciò significa che in genere hanno bisogno di una quantità compresa tra 2.000 UI e 5.000 UI al giorno, e fintanto che non hanno cambiamenti nel loro dosaggio per peso, lo ricontrollerei a tre mesi, e se hanno raggiunto il target dovrebbero proseguire».
Questo controllo è importante, poiché i pazienti con SM non sembrano metabolizzare la vitamina D in modo efficiente come le persone sane, ha sottolineato Mowry. Sul tema della sicurezza, il neurologo ha affermato che non ci sono prove che dosi più elevate siano utili e che in realtà possano essere considerate potenzialmente dannose. «Mega-dosi di vitamina D probabilmente non sono sicure, in base a ciò che sappiamo dalla popolazione generale e non sappiamo degli effetti a lungo termine» ha rilevato. «Quindi, in genere non raccomando dosi molto alte e intermittenti di vitamina D, ma tendo a seguire una raccomandazione giornaliera più bassa».
Riferimento bibliografico:
Ascherio A. MS patients should be advised to take vitamin D for MS. ECTRIMS 2019. Stockholm. Abstract: 27.
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