Vitamina D, scarso effetto sulla densità ossea se non c’è un deficit di partenza



L’utilizzo indiscriminato di integratori di vitamina D per la prevenzione dell’osteoporosi in soggetti che non presentano rischi specifici di deficit di questa vitamina sembra essere inappropriato. È questa la conclusione di uno studio uscito di recente su The Lancet, a firma di tre ricercatori dell’Università di Auckland, in Nuova Zelanda.

Gli autori, guidati dal professor Ian Reid, spiegano nell’introduzione che alcune metanalisi recenti di trial sulla supplementazione di sola vitamina D (senza l’aggiunta di calcio) non hanno dimostrato alcun effetto di prevenzione delle fratture. Tuttavia, suggeriscono, questo risultato potrebbe dipendere da diversi fattori: studi di dimensioni non sufficienti, dosaggi inadeguati, intervento non mirato su popolazioni carenti di vitamina D.

Per valutare l’effetto della vitamina hanno quindi scelto di considerare un endpoint diverso: non più la prevenzione delle fratture, bensì la variazione rispetto alla situazione di base della densità minerale ossea (BMD), che, secondo quanto riferiscono, permetterebbe di identificare effetti biologici significativi in coorti anche abbastanza piccole.

Hanno quindi effettuato una revisione sistematica della letteratura cercando i trial randomizzati che avevano valutato gli effetti della vitamina D (D3 o D2, ma non dei metaboliti della vitamina D) sulla BMD e identificando 23 lavori, sui quali hanno poi effettuato una metanalisi.

Gli studi avevano una durata media di 23 mesi e mezzo e hanno coinvolto in totale 4.082 partecipanti, per la stragrande maggioranza (il 92%) donne, con un età media di 59 anni.

Dei trial selezionati, sei hanno mostrato un beneficio significativo della supplementazione con la vitamina D, due un effetto dannoso e i rimanenti effetti hanno mostrato dati non significativi. I risultati della metanalisi evidenziano un lieve beneficio del trattamento solo a livello del collo del femore (differenza media pesata 0,8%; IC al 95%), senza alcun effetto a livello degli altri siti esaminati nei vari studi, compresa l’anca in toto.

La conclusione di Reid e dei due colleghi è dunque che l’assunzione abituale di vitamina D non sembra mostrare effetti significativi sulla BMD e, pertanto, sulla capacità di prevenire l’osteoporosi.

Ma la generalizzazione, a ben guardare, non è corretta e c’è un distinguo importante da fare. Gli stessi autori, nei risultati, riferiscono che solo in otto studi (e in meno della metà dei pazienti) i livelli medi basali di 25-idrossivitamina D erano inferiori a 50 nmol/l, indice di una carenza della vitamina D, mentre nella maggior parte erano vicini alla soglia di sufficienza (75 nmol/l).

“Il risultato non è quindi sorprendente, semmai lo è la scelta degli autori di includere anche studi fatti su pazienti che non presentavano carenza di vitamina D, e quindi con un uso inappropriato della vitamina” commenta Silvano Adami, direttore della cattedra di Reumatologia dell’Università di Verona. “Ricordiamo che, secondo indicazione, la vitamina D va data per prevenire o curare gli stati di carenza ed è logico che in soggetti non carenti non abbia effetti apprezzabili, come qualunque altra vitamina data a chi non ne abbia bisogno” prosegue lo specialista.

Qui di seguito, riportiamo la classificazione dei livelli ematici di 25(OH)D  che definiscono lo stato vitaminico D contenuta nelle linee guida della Società Italiana di Reumatologia: Sufficienza: >75 nmol/L (o 30 ng/ml), Insufficienza: 50-75 nmol/L (o 20-30 ng/ml), Carenza: <50 nmol/L (o <20 ng/ml).

“Peraltro, ci sono molti studi in letteratura, tra cui alcuni italiani e anche altri citati nella metanalisi degli autori neozelandesi, che mostrano chiaramente come la vitamina D, assunta da soggetti che abbiano una carenza o dagli anziani, dia risultati incredibilmente positivi” continua Adami.

“In un certo senso si può dire che la metanalisi di Reid ha valutato se per caso la supplementazione con vitamina D potesse dare un beneficio aggiuntivo anche in chi carente non è, e ha mostrato che non è così. Per poter evidenziare un chiaro beneficio avrebbe dovuto includere solo pazienti carenti o per lo meno a rischio di carenza della vitamina”.

Inoltre, ricorda il reumatologo, “come indicato chiaramente in tutte le schede tecniche dei farmaci contro l’osteoporosi, precondizione per la cura di questa patologia è sempre e comunque la correzione della carenza di vitamina D”.

Un altro aspetto un po’ controverso dello studio, sul fronte metodologico, riguarda il fatto che in quasi la metà degli studi ai pazienti non era stato somministrato anche calcio e in altri il dosaggio di quest’oligoelemento era comunque insufficiente.

Un introito deficitario di calcio e un conseguente bilancio calcico negativo conducono a una situazione di ipeparatiroidismo secondario in grado di stimolare il turnover osseo e indurre un accelerato processo di perdita di massa ossea. L’associazione con una supplementazione calcica viene infatti sistematicamente impiegata in tutti gli studi che indagano l’attività antifratturativa con altri farmaci.

“Ci sono due grossi studi, uno francese e uno americano, fatti su popolazioni carenti di vitamina D e supplementate con la vitamina e con calcio, che hanno evidenziato un netto beneficio sia in termini di densità ossea sia di prevenzione delle fratture. Credo che se nella metanalisi di Reid fossero stati inclusi anche questi due trial, il risultato sarebbe stato diverso” conclude Adami.

Ian R Reid, Mark J Bolland, Andrew Grey Effects of vitamin D supplements on bone mineral density: a systematic review and meta-analysis  The Lancet, Volume 383, Issue 9912, Pages 146 – 155, 11 January 2014 doi:10.1016/S0140-6736(13)61647-5Cite or Link Using DOI
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