Sclerosi multipla, ridotti livelli sierici di vitamina D correlati a maggiore rischio di progressione



Nei pazienti affetti da sclerosi multipla (SM), trattati principalmente con interferone beta-1b, il riscontro precoce di ridotti livelli di 25-idrossivitamina D [25(OH)D] lungo il decorso della malattia rappresenta un forte fattore di rischio per l’attività e la progressione della SM a lungo termine.

Lo dimostrano i dati di uno studio pubblicato online su JAMA Neurology e coordinato da Alberto Ascherio, docente di Epidemiologia e Nutrizione alla Harvard School of Public Health di Boston.

Dallo studio sembra che i livelli sierici di vitamina D abbiano una correlazione inversa con l’attività della SM in termini non solo di tasso di progressione e di nuove lesioni attive, ma anche di numero di recidive e grado di atrofia cerebrale. Lo studio riveste dunque una specifica importanza clinica, in quanto contribuisce a dare una risposta a un quesito finora irrisolto: ovvero se la carenza di vitamina D, che è comune nei pazienti con SM, determini effetti avversi sugli esiti della patologia, come precedenti studi sembrano suggerire.

L’obiettivo dello studio era dunque quello di stabilire se le concentrazioni sieriche di 25(OH)D, marker dello status di vitamina D, fosse predittivo dell’attività e della prognosi nei pazienti con un primo evento suggestivo di SM (sindrome clinicamente isolata). I ricercatori si sono basati sui dati dello studio BENEFIT (Betaferon/Betaseron in Newly Emerging multiple sclerosis For Initial Treatment trial), disegnato originariamente per valutare l’impatto del trattamento precoce con interferone beta-1b (IFN-1b) rispetto a quello dilazionato nei pazienti con sindrome clinicamente isolata. Le concentrazioni sieriche di 25(OH)D sono state misurate al basale, e a distanza di 6, 12 e 24 mesi.

In tutto si sono avuti 465 pazienti randomizzati con almeno una misurazione di 25(OH)D, e 334 tra questi avevano misure effettuate sia a 6 che a 12 mesi (asincrone sotto il profilo stagionale). I partecipanti allo studio sono stati seguiti per 5 anni sia clinicamente sia tramite imaging con risonanza magnetica (RM).

«Come principali misure di outcomes» scrivono Ascherio e colleghi «abbiamo preso in considerazione le nuove lesioni attive, l’aumento del volume delle lesioni in T2, l’aumento del volume cerebrale alla RM, così come le recidive di SM e la disabilità, valutata mediante l’Expanded Disability Status Scale (EDSS) score». È stato considerato anche il tempo di conversione a SM clinicamente definita.

È emerso che i valori più elevati di 25(OH)D erano predittivi di ridotta attività SM e di una più lenta progressione di malattia. Un incremento di 50 nmol/L (20 ng/mL) nei livelli sierici medi di 25(OH)D entro i primi 12 mesi era predittivo di una riduzione del 57% del numero di nuove lesioni attive (P<0,001), una riduzione del 57% delle recidive (P=0,03), una riduzione del 25% nell’aumento annuo del volume delle lesioni in T2 (P<001) e una perdita annua inferiore dello 0,41% del volume cerebrale (P=0,07) dal 12° al 60° mese. Inoltre il rischio di conversione a SM clinicamente definita diminuiva all’aumentare dei livelli serici di 25(OH)D.

Associazioni simili sono state riscontrate tra le misurazioni di 25(OH)D effettuate fino a 12 mesi e l’attività o la progressione SM dal 24° al 60° mese. Nelle analisi in cui si utilizzavano livelli dicotomici di 25(OH)D, valori pari o superiori a 50 nmol/L (20 ng/mL) fino a 12 mesi sono risultati predittivi di una disabilità inferiore (EDDS score: -0,17; P=0,004) durante i 4 anni successivi.

«I risultati del nostro studio» affermano Ascherio e colleghi «dimostrano un forte valore prognostico dei livelli di vitamina D misurati precocemente nel decorso della SM e convergono con precedenti evidenze epidemiologiche e biologiche nel supportare un effetto protettivo della vitamina D stessa rispetto a processi patogenetici sottostanti la SM. Ciò evidenzia l’importanza di correggere il deficit di 25(OH)D che interessa circa il 50% dei pazienti con SM in Europa e il 20% in Usa».

«Ulteriori studi» aggiunge «sono però necessari al fine di determinare i livelli ottimali di vitamina D, se questi risultati siano applicabili ad altre razze o etnie, a pazienti con decorso secondariamente progressivo o primariamente progressivo o in associazione ad altri farmaci per la malattia differenti dall’IFN-1b».

Arturo Zenorini

Ascherio A, Munger KL, White R, et al. Vitamin D as an Early Predictor of Multiple Sclerosis Activity and Progression. JAMA Neurol, 2014. [Epub ahead of print]
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