Sclerosi multipla, livelli elevati di vitamina D associati a riduzione attività di malattia



In letteratura si stanno progressivamente accumulando evidenze a favore di un effetto positivo della vitamina D in pazienti affetti da sclerosi multipla (SM).

Ne è un esempio lo studio appena pubblicato online ahead-of-print sulla rivista Jama Neurology (1) che ha dimostrato come, in pazienti affetti da SM remittente (RRMS) trattati con interferone β-1b, la presenza di livelli elevati di 25(OH)D si associ ad una riduzione dell’attività di malattia.

“La SM è una malattia debilitante del SNC caratterizzata da periodi episodici di demielinizzazione infiammatoria e deficit neurologico progressivo – ricordano gli autori nell’introduzione al lavoro.”

In letteratura le osservazioni a favore dell’associazione tra livelli di 25(OH)D e rischio di MS sono molteplici ma, allo stato attuale, non sono stati identificati i livelli sierici di 25(OH)D considerati ottimali ai fini della riduzione del rischio di malattia. Inoltre, aggiungono gli autori, è importante determinare se questa associazione tra i livelli di 25(OH)D e gli outcome di SM sia differente a seconda dei sottogruppi di pazienti considerati e se si applichi in modo particolare a pazienti con attività di malattia elevata che potrebbero trarre beneficio da alternative terapeutiche differenti.

Per rispondere a queste domande, è stato messo a punto uno studio prospettico su un’ampia popolazione di pazienti con RRMS trattati con interferone beta-1b, caratterizzata da una elevata distribuzione di livelli sierici di 25(OH)D e un ampio spettro di severità di malattia.

Nello specifico, lo studio ha incluso pazienti provenienti dal trial BEYOND (the Betaferon Efficacy Yielding Outcomes of a New Dose), un ampio trial randomizzato registrativo di Fase III che prevedeva il trattamento di pazienti con dosaggi giornalieri differenti di interferone β-1b (250 o 500 μg/die) o con glatiramer acetato.

L’analisi ha incluso 1.456 pazienti in trattamento con interferone β-1b con almeno 2 misurazioni dei livelli di 25(OH)D effettuate a 6 mesi di distanza l’una dall’altra, e informazioni sulle misure di imaging a RM nel corso del follow-up. I pazienti inclusi nello studio mostravano una durata mediana di malattia di almeno 3 anni.

I ricercatori hanno condotto aggiustamenti stagionali dei livelli di vitamina D in relazione a 4 ampie aree geografiche: Europa dell’Est (compresa la Russia), Europa Occidentale (compreso Israele), Nord America ed Emisfero Meridionale (inclusa l’Australia, l’Argentina e il Brasile). Inoltre, hanno provveduto a raggruppare i livelli medi di vitamina D nelle categorie seguenti: <37,5 nmol/L; da 37,5 a 49,9 nmol/L; da 50 a 74,9 nmol/L; da 75 a 99,9 nmol/L; >100 nmol/L.

In questo modo, è stato osservato che i livelli medi di 25(OH)D rilevati nei pazienti inclusi nello studio variavano in maniera rilevante a seconda dell’area geografica considerata, con i valori più bassi riscontrati in Russia e quelli più elevati in Australia.
Non solo: sono state documentate anche differenze cliniche a seconda dell’area geografica considerata, come ad esempio un volume più elevato di lesioni iperintense in T2, un’età di insorgenza più precoce e una maggiore durata di malattia nei pazienti residenti nell’Europa dell’Est e della Russia rispetto agli altri.

Dati relativi allo scenario ottimale

Le successive analisi cross-sectional, aggiustate in base al sesso, al gruppo di trattamento (interferone β-1b, 250 o 500 μg), al punteggio EDSS (Expanded Disability Status Scale) al basale, alla durata di malattia e alla regione di residenza hanno confermato come i livelli basali di vitamina D fossero inversamente associati con il volume delle lesioni iperintense in T2. In particolare, è stato osservato che, ad un incremento lineare di 50 nmol/L di vitamina D corrispondeva un decremento, su scala logaritmica, pari a 0,11 cm3 (volume lesione T2).

Non solo: i livelli di vitamina D sono risultati anche inversamente associati con il numero cumulativo di nuove lesioni attive (dato dalla somma di nuove lesioni T2 e T3) dall’inizio del periodo di osservazione fino ad un anno (0,76; IC95%= 0,60-0,98; p=0,03).

Inoltre, analisi longitudinali hanno mostrato come i livelli di vitamina fossero inversamente correlati con il numero di lesioni attive dal basale all’ultimo esame di imaging a RM (follow-up medio= 2 anni). In particolare, è stato osservato che un incremento dei livelli sierici di 25(OH)D pari a 50 nmol/L era associato ad un rischio di nuove lesioni ridotto del 31%.

Tale associazione inversa, è risultata significativa anche in analisi ristrette a pazienti con livelli di 25(OH)D>50 nmol/L (RR=0,62) e in tutte le aree geografiche considerate e suggerisce come il target di livelli di 25(OH)D possa essere troppo basso nei pazienti con SM.

I ricercatori hanno osservaro che i pazienti con livelli di vitamina D >100 nmol/L presentavano un tasso pressochè dimezzato di nuove lesioni rispetto ai pazienti con livelli sierici di 25(OH)D compresi tra 50 e 74,9 nmol/L (RR=0,53).
Inoltre, l’associazione tra i livelli di vitamina D e l’attività di malattia è risultata leggermente alterata dopo aggiustamento dei dati in vase all’etnia e al volume della lesione T2 al basale, pur rimanendo statisticamente significativa.

Quanto al numero di ricadute, non è stata documentata, invece, l’esistenza di un’associazione significativa tra lo status di vitamina D al basale e il numero di ricadute nei 2 anni precedenti come nel numero di ricadute dal basale all’ultima visita di controllo effettuata.
Nel commentare questo dato, gli autori ipotizzano una minore sensitività dell’attività di malattia misurata mediante la scala EDSS rispetto all’imaging a RM.

Infine, i ricercatori non hanno documentato l’esistenza di un’associazione tra i livelli di vitamina D, al basale o 12 mesi, e il volume cerebrale.
A tal riguardo, gli autori dello studio ipotizzano che ciò dipenderebbe dal fatto che la vitamina D è associata ai processi infiammatori della SM, nonché al ridotto periodo di follow-up (2 anni) che, probabilmente, non ha consentito di avere tempo sufficiente a monitorare il processo neurodegenerativo. I risultati di uno studio precedentemente pubblicato e con un follow-up più lungo (5 anni) documentaterebbero, infatti, l’esistenza di un’associazione tra bassi livelli di vitamina D e atrofia cerebrale (2).

Nel commentare i risultati, gli autori dello studio affermano che, nonostante l’evidenza suggerisca il beneficio di livelli elevati di vitamina D, siamo ancora lontani dall’aver individuato livelli ottimali.
Gli autori, infatti, oltre a ricordare la natura osservazionale dello studio, suggeriscono ancora prudenza nell’aumentare i livelli di 25(OH)D al di sopra del limite fisiologico di 150 nmol/L per l’assenza di informazioni sulle conseguenze fisiologiche derivanti dal raggiungimento di tali livelli.

Si attendono, pertanto, le conclusioni del trial VIDAMS (the Vitamin D to Ameliorate MS), per avere un quadro più preciso del possibile beneficio derivante dalla supplementazione vitaminica in questi pazienti.
Lo studio VIDAMS ha reclutato 172 pazienti con RRMS in 16 centri dislocati sul territorio USA e metterà a confronto i tassi di ricaduta osservati nei pazienti sottoposti a supplementazione con dosi elevate di vitamina D (5.000 UI/die) con quelli rilevati nei pazienti supplementati con dosi minori della vitamina (600 UI/die). Lo studio è attualmente in corso e si prevede che la fase di follow-up si prolunghi nel corso del prossimo anno.

Bibliografia

1. Fitzgerald KC et al. Association of Vitamin D Levels With Multiple Sclerosis Activity and Progression in Patients Receiving Interferon Beta-1b. JAMA Neurol. Published online October 12, 2015. doi:10.1001/jamaneurol.2015.2742
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2. Acherio A et al. Vitamin D as an Early Predictor of Multiple Sclerosis Activity and Progression
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