Il genere influenza lo status vitaminico e gli effetti cardiovascolari della vitamina D



L’appartenza al sesso femminile è un fattore di rischio indipendente di deficit grave di vitamina D e l’ipovitaminosi D è associata a malattia coronarica più aggressiva nel gentil sesso.

Queste le conclusioni principali di uno studio pubblicato sulla rivista Nutrition, Metabolism & Cardiovascular Diseases che, se confermate, suggerirebbero un possibile razionale di supplementazione vitaminica nel sesso femminile in funzione preventiva CV primaria e secondaria.

Nel corso degli anni si è assistito alla crescita di un filone di ricerca avente come obiettivo quello di approfondire gli effetti cardiovascolari della vitamina D.

“E’ noto, infatti, come la vitamina D, sotto forma del metabolista 25(OH)D, sia in grado di modulare a livello genetico l’espressione di diverse metalloproteinasi di matrice, di fattori di crescita e di citochine coinvolte nella risposta infiammatoria e nelle vie biochimiche che presiedono ai processi di coagulazione e trombosi, condizionando la funzione endoteliale, l’aggregazione piastrinica e la progressione dell’aterosclerosi – ricordano gli autori nell’introduzione al lavoro. – E’ peraltro già noto in letteratura come esistano differenze di genere in relazione allo status vitaminico, con tassi elevati di ipovitaminosi documentati soprattutto nelle donne in post-menopausa, a rischio maggiore di fratture e di osteoporosi.”

Fino ad oggi. tuttavia, pochi studi avevano valutato le differenze dei livelli di 25(OH)D in relazione al sesso di appartenenza e al loro impatto sulla prevalenza e la severità di malattia coronarica.

 

Di qui il razionale del nuovo studio, che ha preso in considerazione 1.811 pazienti (1.281 uomini e 530 donne), sottoposti ad angiografia coronarica e a raccolta di campioni ematici per la misurazione dei livelli di 25(OH)D. La condizione di malattia coronarica importante era definita in base alla stenosi di un vaso >50% mentre quella di malattia coronaria severa dal riscontro di malattia trivasale.

Su in totale di 1.811 pazienti inclusi, il 29,3% era costituito da donne. Queste si caratterizzavano, rispetto agli uomini, per un’età più avanzata (p<0,001), un tasso più elevato di insufficienza renale (p<0,001) e ipertensione (p= 0,05), un impiego prevalente di sartani (p=0,03) e diuretici (p<0,001), una conta piastrinica elevata (p<0,001), come pure per livelli elevati di emoglobina glicosilata (p=0,02) e colesterolo (p=0,001).

Inoltre le donne reclutate nello studio su caratterizzavano per l’esistenza di una relazione inversa con lo status di fumatore (p<0,001), il riscontro di eventi CV pregressi (p<0,001), il ricorso al trattamento con statine e ASA (p<0,001), e i valori di BMI (p=0,002), emoglobina (p<0,001), leucociti (p=0,03) e trigliceridi (p<0,001).

 

I risultati dello studio hanno mostrato che il sesso femminile era associato a livelli più bassi di vitamina D (14,5 ± 0,9 vs. 15,9 ± 9,5, p = 0,007) e associato in maniera indipendente a ipovitaminosi D severa [41,9% vs. 30,4%, p < 0,001; adjusted odds ratio (OR)= 1,42; IC95%= 1,08-1,87, p = 0,01].

L’analisi per terzili di concentrazione di vitamina D ha mostrato che i terzili di concentrazione più bassi dell’ormone erano associati ad un incremento della prevalenza e della severità di malattia coronarica nelle donne [adjusted OR= 1,26; IC95%= 1,10-1,44; p = 0,001 per malattia coronarica; adjusted OR= 1,6; IC95%= 1,39-1,87; p< 0,001 per malattia coronarica severa].

Nei pazienti di sesso maschile, invece, lo status di vitamina D è risultati correlato in maniera indipendente alla prevalenza di malattia coronarica [adjusted OR= 1,28; IC95%= 1,02-1,61; p = 0,03], ma non alla sua severità [adjusted OR= 1,02; IC95%= 0,86-1,02; p = 0,84].

 

Nonostante alcuni limiti metodologici intrinsci (la mancanza di dati di follow-up sugli effetti a lungo termine dell’ipovitaminosi D, la percentuale limitata di donne incluse nel campione, pari al 30%) lo studio depone per l’esistenza di un’associazione indipendente tra il sesso femminile e il deficit di vitamina D e per un ruolo più rilevante dell’ipovitaminosi D suò rischio di malattia più severa nelle donne rispetto agli uomini.

“Pertanto – aggiungono gli autori – se la supplementazione vitaminica nel sesso femminile si è limitata finora alla prevenzione dell’osteoporosi, i risultati ottenuti suggeriscono di esplorare la possibilità di un’estensione d’ impiego anche nelle donne affette da malattia CV. Si impone, dunque, la necessità di condurre nuovi studi in grado di definire se la correzione dell’ipovitaminosi D nelle donne a rischio elevato, come quelle in post-menopausa, possa assicurare benefici più significativi rispetto alla popolazione generale.”

 

Verdoia M et al. Impact of gender difference on vitamin D status and its relationship

with the extent of coronary artery disease. Nutrition, Metabolism & Cardiovascular Diseases (2015) 25, 464e470

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